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Immobile. statico a malapena avevo attivato il cervello per rispondere agli impulsi, insulsi e in convulsi, provenienti dall’esterno, perno di una fabula, emula di una sula, nell’arco di un cielo, turchese, ampio nelle distese. La mia svogliata capacità intellettiva, solitaria, e per pochi, mi vedeva rintanato dentro gli spazi dell’appartamento. Ero ipocondriaco per quel senso nelle mie cognizioni, sbilenche ma non irrazionali, un ciottolo tondo smerigliato dall’acqua di un ruscello in piena nell’arco di un periodo, lungi da quantificare. Converrete che la funzione dell’acqua abbia impiegato tanto tempo, che non riesce a stare dentro una narrazione che si prefigge solo un’incipienza di un periodo non troppo lungo e non troppo noioso. Oserei affermare che la cognizione fosse alquanto marginale e peculiare ma nell’insieme atta a far comprendere quell’innata inoperosità che mi avesse colpito in quel momento. Il sole con i suoi raggi luminosi attraversava i vetri della finestra e andava a colpire il comò, panna, sopra il quale era ben visibile una foto. Col tempo era divenuto un oggetto imprescindibile, abituale, necessario, immancabile non per la postura statica, ma per il dinamismo che mostrava la sua immagine. Dinamismo da effetto univoco verso un’estensione di sensazioni peculiari nell’ambito di un encefalo rorido e propenso a farsi condizionare solo dall’interfaccia intellettiva che mostrasse con la sua piana raffigurazione mia moglie e il figlio maschio dell’età di un anno, sorretto da un braccio esile e robusto. Sensazioni, adesioni, percezioni, verso un oblio imminente ma non ancora giunto, prossimo ma non percepibile, tangibile ma non materiale, legato alla gradevolezza di un pensiero sempre limpido e presente da far compagnia in ogni istante reale e ideale durante la giornata. Proiettai, nello schermo immaginifico, denso delle mie coercizioni incoerenti, i passi radi di Antonello; i vezzi frenuli, esuli dalla gola rosea e umida. Un corso d’acqua fresca condizionava una giornata col sol leone. Si udivano vagiti argillosi, pianti ecumenici, segni d’insofferenza o di malessere verso il cibo. Si vedeva la stanchezza, i sorrisi a bocca dischiusa tra una chiosa e una vischiosa inconcludente deferenza non in lontananza. I primi denti luccicavano nivei agli occhi ambivalenti, fuori di una lente immaginaria. L’anima innocente